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La ritenuta d'acconto -1^

Ricevo e pubblico

In questo periodo, iniziati i calcoli di Unico, molti professionisti si accorgono dell’assenza della certificazione del sostituto di imposta, senza la quale si pone il dubbio se scomputare o meno le ritenute d’acconto subite.

I lavoratori autonomi, infatti, sulle fatture emesse ai soggetti Iva, subiscono una trattenuta che deve essere versata all’erario. Tali ritenute devono poi essere certificate al professionista che può scomputarle in dichiarazione annuale trattandosi di un acconto sulle imposte dovute.

Puntualmente, però, in questo periodo ci si rende conto che la certificazione non è pervenuta dal cliente. Da qui i dubbi sul comportamento da tenere.

La Cassazione [1] ha sempre affermato l’impossibilità per il professionista di detrarsi le ritenute in assenza della certificazione. Contrariamente, invece, i giudici di merito hanno ritenuto valide prove diverse, volte cioè ad attestare l’avvenuta ritenuta in capo al professionista.

L’agenzia delle Entrate, aderendo all’orientamento della giurisprudenza di merito [2] ha offerto un’interessante interpretazione.

La legge [3] consente all’amministrazione di escludere in tutto o in parte lo scomputo delle ritenute non risultanti:
- dalle dichiarazioni dei sostituti d’imposta,
- dalle certificazioni richieste ai contribuenti
- o delle ritenute risultanti in misura inferiore a quella indicata nelle dichiarazioni dei contribuenti.

Con la locuzione “certificazioni richieste ai contribuenti” si aprirebbe la strada all’utilizzo di “certificazioni diverse” rispetto a quelle rilasciate dal sostituto. Da ciò consegue che il contribuente può comunque essere legittimato allo scomputo delle ritenute purché sia in grado di documentare di aver subito la trattenuta.

La prova può essere alternativamente fornita tramite contemporanea esibizione sia della fattura e sia del compenso effettivamente percepito.

Va così dimostrato che le somme incassate siano corrispondenti al netto fatturato, assoggettate, cioè, alla ritenuta prevista per legge.

L’Agenzia precisa che la prova del pagamento può essere offerta attraverso la documentazione rilasciata da banche o altri operatori finanziari.

È poi richiesta l’esibizione di una dichiarazione sostitutiva accompagnatoria, con la quale il contribuente dichiari, sotto la propria responsabilità, che la documentazione prodotta è riferita esclusivamente a una o più fatture specificamente individuate, a fronte delle quali non vi è stato alcun ulteriore pagamento da parte del sostituto.

Secondo l’Agenzia, tale dichiarazione sostitutiva assume un valore probatorio equipollente a quello della certificazione rilasciata dal sostituto, rilevando la stessa quale dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà.

L’interpretazione estensiva offerta dall’Agenzia incontra limitazioni nei casi di pagamento in contanti: non è possibile, in tale ipotesi, produrre la documentazione bancaria attestante l’incasso. Una possibile soluzione, potrebbe ravvisarsi nell’integrazione della dichiarazione sostitutiva, con le indicazioni del metodo di pagamento e delle somme percepite.


Sebbene non esistano chiarimenti ufficiali in tal senso, è verosimile che, così facendo, risulterebbero, in ogni caso, forniti e attestati, tutti i dati contenuti ordinariamente nella certificazione rilasciata dal sostituto. Va da sé che la legittimazione della deduzione di ritenute “autocertificate” per le quali non vi è la tracciabilità del pagamento, potrebbe comportare facili pratiche fraudolenti ancorchè esporrebbe il dichiarante a sanzione particolarmente gravi. È comprensibile in questi casi l’atteggiamento di “chiusura” degli uffici anche se nella stessa risoluzione è affermato che la dichiarazione sostitutiva può riguardare anche stati, qualità personali e fatti relativi a soggetti terzi, di cui l’interessato sia a diretta conoscenza e, dunque, è possibile dichiarare che il sostituto ha trattenuto una parte del corrispettivo a titolo di ritenuta fiscale.

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