Da alcuni anni, e sempre più frequentemente, troviamo in tutti i panifici, e più volte al giorno, pane di "Timilìa", "Tumminìa", "Russello", ecc.
L'offerta sugli scaffali è ogni giorno, e più volte al giorno, ovvero nelle varie "infornate" quotidiane.
Oltre a ciò in ogni pizzeria troviamo le pizze con questi grani, e poi in ogni supermercato troviamo le paste ... e questo, ormai, va diffondendosi in tutto il nostro paese.
E mi pongo il problema dei "numeri": ma quanti ettari vengono coltivati di questi grani antichi, tali da giustificare una produzione così elevata di prodotti trasformati?
Sollevai anni fa la questione, e pensai l'unico modo per attenuare "la moltiplicazione dei numeri" sarebbe stato quello di certificare i prodotti, indicandone la provenienza delle farine, perchè così com'è oggi mi sembra che ci siano più prodotti offerti al consumatore, che le quantità prodotte.
Ho sentito alcuni panificatori, che mi hanno risposto: "ma con il 5-10% di farine di quei grani faccio tantissimo pane; l'importante che c'è".
E di conseguenza mi domando: ma i prodotti offerti del tipo "pane di timilìa" debbono avere l'indicazione "con aggiunta di farina di frumento di timilìa" o basta che ci sia una percentuale minima può essere venduto (o spacciato) come "pane di timilìa"?
Mio padre la pensa come lei, dottore.
RispondiEliminaE visto che lui in passato è stato un produttore, adesso storce il naso e mi dice: c'è qualcosa che non torna assai.
Saluti
Marco