28 gennaio, 2013

Concentrato di pomodoro cinese

Ricevo dal collega Marco Felicani, dell'Emilia Romagna, e pubblico.

Concentrato di pomodoro importato dalla Cina ed etichettato come “made in Italy“. Clementine di provenienza spagnola e spacciate per calabresi. Prosciutti crudi provenienti dal Belgio, Olanda e Germania e commercializzati come prodotti nostrani. Oli extravergini d’oliva frutta in realtà di adulterazioni e deodorazioni. Funghi porcini acquistati in Asia e messi sul mercato in confezioni riportanti l’Italia come luogo di origine. Sono solo alcuni esempi di lampante contraffazione alimentare riportati dalle cronache giudiziarie.
I trasgressori? Imprenditori campani, importatori emiliani, commercianti veneti e pugliesi. Insomma, tutta “roba de noantri” come direbbero dalle mie parti. Questo per sfatare il mito che i falsi prodotti italiani vengano fatti sopratutto oltre confine.

È ormai unanimemente riconosciuto che l’italian sounding sia una piaga globale che ogni giorno, stando ai dati forniti da Confragricoltura, ruba letteralmente 165 milioni di euro al made in italy nel mondo, per un business illegale di ben 60 miliardi di euro all’anno. Una cifra superiore di quasi due volte e mezzo il valore complessivo medio dell’export agroalimentare italiano. Casi come quello del Parmesan (formaggio fatto con latte di mucche del Wisconsin che imita in maniera palese il Parmigiano reggiano) o dell’improbabile Spicy Thai, (smerciato dagli americani come pesto genovese), sono ormai noti ai più. Negli ultimi 20 anni, c’è stato un vero e proprio boom di “taroccamenti” del meglio dell’italian style enogastronomico. Possiamo dirlo a voce alta: siamo il paese più imitato del mondo dal punto di vista alimentare. Tuttavia, l’italian sounding non è solo che una faccia della medaglia della contraffazione alimentare che da anni ormai affligge le italiche produzioni.

Purtroppo, in molti casi sono gli stessi italiani che sul “falso made in Italy” ci marciano alla grande: un fenomeno che vale circa 7 miliardi di euro l’anno di cui due terzi in capo al solo per il settore agroalimentare. Se dall’estero dunque, si copiano senza pudore i nostri prodotti facendo leva sull’italianità come elemento attrattivo nei confronti dei consumatori, l’agropirateria in salsa tricolore basa invece il suo business illegale sulle sofisticazioni e le falsificazioni delle eccellenze nostrane, di quel patrimonio enogastronomico emblema della Dieta Meditteranea e modello nutrizionale universalmente apprezzato nel mondo, perché fondato su un’alimentazione basata su prodotti locali, stagionali e freschi.

L’Italia vanta oltre il 22% dei prodotti certificati registrati complessivamente a livello europeo. Se a questi aggiungiamo oltre 400 vini Doc, Docg e Igt e gli oltre 4000 prodotti tradizionali censiti dalle Regioni e inseriti nell’ Albo nazionale. Una lunghissima lista di prodotti che quotidianamente deve fare i conti con il rischio taroccamenti e adulterazioni, all’interno dei confini nazionali. In riferimento al solo anno 2010, in Italia sono state sequestrate circa 12 mila tonnellate di prodotti falsamente indicati come Dop. Le agromafie, sono ormai diventate sempre più esperte nell’utilizzo di internet e dell’e-commerce e risulta sempre più difficile seguire le rotte dei bancali di agrumi che partono dalla Spagna o dal Maghreb e, attraverso queste triangolazioni illegali, approdano “miracolosamente” sui nostri mercati con etichette italiane.

Nonostante tutto ciò, sempre nel 2010, i Nas ed altri organi preposti, hanno effettuato circa 1 milione di verifiche e ispezioni, ma per tutelare il made in italy alimentare serve una stretta legislazione al giorno d’oggi permette di spacciare come made in italy quasi la metà della spesa fatta dagli italiani, dal momento che non è ancora obbligatorio indicare in etichetta la provenienza della materia prima in tutti i prodotti alimentari in vendita.

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